Max Weber (1864 -1920): ETICA DEI PRINCIPI ed ETICA DELLA RESPONSABILITA’, 1919. Scheda di Paolo Ferrario, redatta nel 2009 per un corso di formazione

Nella sua ormai famosissi­ma conferenza sul tema Politica come professione (tenuta a Mona­co il 28 gennaio 1919, un anno prima della sua morte), Max We­ber trattò in modo disincantato il tema del rapporto fra etica e politica.

La politica è il dominio della forza. Chi ha la «vocazione» per la politica (Beruf in tedesco significa sia professione sia vocazio­ne) sa di dover affrontare aspre lotte. Solo uomini astuti e dal carattere forte potranno affrontare le insidie «diaboli­che» della politica, il cui terre­no proprio è l’uso della forza.

E’ per definire questo carattere che Weber introduce la distin­zione tra

  • etica della convin­zione” — o più precisamente “eti­ca dei princìpi” (Gesinnungsethik)
  • ed “etica della responsabilità” (Verantwortungsethik).

La prima è un’etica assoluta, di chi ope­ra solo seguendo principi rite­nuti giusti in sé, indipendente­mente dalle loro conseguenze. E’ questa un’etica della testimonianza assolutizzata: “avvenga quel che avverrà, io devo comportarmi così”.

La seconda è l’etica veramente pertinente alla politica. L’etica della responsabilità si riferisce alle presumibili conseguenze delle scelte e dei comportamenti che l’individuo ed il suo gruppo di appartenenza mette in atto.

Il pro­blema, scrive Weber, è che «il raggiungimento di fini buoni è accompagnato il più delle vol­te dall’uso di mezzi sospetti», e «nessuna etica può determi­nare quando e in qual misura lo scopo moralmente buono “giustifica” i mezzi e le altre conseguenze moralmente peri­colose». Chi non tiene conto di questo — che dal bene non deriva sempre il bene e dal male non deriva sempre il ma­le — «in politica è un fanciul­lo».

Le due etiche non sono però «antitetiche ma si comple­tano a vicenda, e solo- congiun­te formano il vero uomo, quel­lo che può avere la “vocazione per la politica“», salvo ribadire che tra esse non potrà mai dar­si vera conciliazione né armo­nia a buon mercato.

La lezione di realismo di Weber si spinge così fin den­tro le pieghe dell’etica. Egli afferma che solo un atto di reponsabilità può risolvere, nell’azione, i “dilemmi etici” che il politico, e in generale chiunque abbia responsabilità verso il prossimo, si trova ine­vitabilmente di fronte. I valori sono più d’uno, ognuno ugual­mente importante nella propria sfera, e non sempre sono armo­nizzabili, ma possono scontrar­si ed entrare in conflitto quando è il momento di agire.

Questo è il senso del concetto di “politeismo dei valo­ri“.

Le precedenti annotazioni sono tratte dalle conferenze La scienza come professione e La politica come professione,  pubblicate (con il titolo Il lavoro intellettuale come professione) nei “Saggi” Einaudi, tradotti da Antonio Giolitti e con l’introduzione di Delio Cantimori.

Nel 2001 sono state ripubblicate dalle edizioni Comunità a cura di Pietro Rossi e Francesco Tuccari. Il traduttore Wolfgang Schuchter sostituisce la locuzione “etica dei princìpi” a quella di “etica della convinzione” e così ne spiega la motivazione:

La difficoltà più rilevante riguarda la coppia concettua­le Gesinnungsethik-Verantwortungsethik, che ha un ruolo centrale in Politik als Beruf. mentre il secondo termine trova una ovvia corrispondenza in «eti­ca della responsabilità», la stessa cosa non vale per il primo, data l’assenza in italiano (ma anche nelle altre lingue principali) di un equivalente preciso del tedesco Gesinnung. Esso è stato tradotto da Giolitti con «etica dell’in­tenzione», mentre in seguito si è preferito, sulla scorta della versione ingle­se e di quella francese, renderlo con «etica della convinzione». L’una e l’al­tra soluzione sono però insoddisfacenti, poiché la Gesinnungsethik weberiana non costituisce un’etica della pura intenzione in senso kantiano, né trova la propria base in una semplice «convinzione»: essa riveste per un verso un significato soggettivo, in quanto designa l’incondizionata adesione perso­nale a certi principi che devono guidare l’agire dell’individuo, e per l’altro verso un significato oggettivo, in quanto comporta il riferimento a principi assunti come incondizionatamente validi, che l’individuo assume come pro­pri scopi indipendentemente dalla considerazione dei mezzi necessari e del­le prevedibili conseguenze della loro realizzazione. Si è perciò preferito adot­tare qui un’altra versione (ancorché legata, in parte, a una diversa tradizio­ne di filosofia morale), rendendo Gesinnungsethik con «etica dei principi».

Ma leggiamo direttamente il testo:

L’etica può presentarsi in un ruolo assai deleterio da un punto di vista morale. Facciamo alcuni esempi.

Raramente troverete che un uomo, il quale abbia smes­so di amare una donna per un’altra, non senta il bisogno di giu­stificarsi con se stesso dicendo che la prima non era più degna del suo amore, o che lo aveva deluso, o adducendo altre «ra­gioni» simili. Si tratta di una mancanza di cavalleria che, al sem­plice dato di fatto che egli non la ama più e che la donna deve portarne le conseguenze, aggiunge ancora una parvenza di le­gittimità, in forza della quale egli pretende un diritto e cerca di rovesciare sulla donna, oltre all’infelicità, anche un torto. Si comporta esattamente allo stesso modo il concorrente fortuna­to in amore: il rivale deve valere di meno, altrimenti non sa­rebbe stato sconfitto.

Le cose non vanno ovviamente in modo diverso quando, dopo una qualsiasi guerra vittoriosa, il vinci­tore afferma con una tracotanza priva di dignità: ho vinto per­ché avevo ragione. Oppure, quando qualcuno crolla interior­mente di fronte agli orrori della guerra e, invece di dire sem­plicemente che era troppo, sente il bisogno di giustificare di fronte a se stesso la sua stanchezza della guerra con questo sen­timento: «Non potevo sopportarlo, perché dovevo combattere per una causa moralmente cattiva». E lo stesso accade per chi è sconfitto in guerra. Dopo una guerra, invece di andare in cer­ca del «colpevole» con una vecchia mentalità da donnicciole -quando è stata invece la struttura della società a determinare la guerra – chiunque assuma un atteggiamento virile e sobrio dirà al nemico: «Abbiamo perso la guerra, voi l’avete vinta. Questa è ormai cosa fatta: concedeteci ora di discutere su quali conse­guenze se ne debbano trarre in relazione agli interessi oggetti­vi che erano in gioco e – questa la cosa principale – in rappor­to alla responsabilità di fronte al futuro, che grava special­mente sul vincitore».

Tutto il resto è privo di dignità e ha gravi conseguenze. Una nazione perdona una ferita dei propri inte­ressi, ma non una ferita del proprio onore, e tanto meno una fe­rita inflitta con prepotenza farisaica. Ogni nuovo documento che viene alla luce dopo decenni fa sorgere nuovamente grida di sdegno, l’odio e l’ira, mentre la guerra, una volta terminata, dovrebbe essere almeno moralmente sepolta. Questo è possibile soltanto attraverso l’oggettività e la cavalleria, ma so­prattutto mediante la dignità. E mai attraverso un’« eti­ca», che in verità significa mancanza di dignità da entrambe le parti. Invece di preoccuparsi di ciò che interessa l’uomo politico – il futuro e la responsabilità di fronte a esso – l’etica si occupa della questione della colpa commessa nel passato, una questio­ne politicamente sterile perché indecidibile. Agire in que­sto modo è una colpa politica, se mai ve n’è una. E inol­tre, l’inevitabile travisamento dell’intero problema viene oc­cultato da interessi assai materiali: l’interesse del vincitore al guadagno – morale e materiale – più alto possibile, le speranze dello sconfitto di procurarsi qualche vantaggio attraverso il ri­conoscimento della propria colpa: se vi è mai qualcosa di « v o l g a r e », è proprio questo, ed è la conseguenza di un siffatto modo di utilizzare l’«etica» come pretesto per «mettersi dalla parte della ragione».

Ma qual è dunque il rapporto reale tra etica e politica ? Non hanno niente a che fare l’una con l’altra, come si è talvolta af­fermato? O è vero, al contrario, che la «stessa» etica vale per l’agire politico come per ogni altro agire?

Si è talvolta pensato che tra queste due affermazioni si ponesse un’alternativa: sa­rebbe giusta o l’una o l’altra. Ma è dunque vero che imperativi identici dal punto di vista del contenuto potrebbero esse­re formulati da qualsiasi etica al mondo per rapporti erotici e di affari, familiari e di ufficio, per le relazioni con la moglie, l’erbivendola, il figlio, il concorrente, l’amico, l’imputato? Do­vrebbe essere davvero cosi indifferente per le esigenze etiche nei confronti della politica che questa operi con un mezzo cosi specifico come la potenza, dietro cui vi è la violenza ? Non vediamo che gli ideologi bolscevichi e spartachisti, proprio in quanto fanno uso di questo mezzo della politica, giungono esat­tamente agli stessi risultati di un qualsiasi dittatore milita­re ? In che cosa, se non nella persona di chi detiene il potere e nel suo dilettantismo, si differenzia il potere dei consigli degli operai e dei soldati da quello di un qualsiasi detentore del po­tere del vecchio regime ? E in che cosa, ancora, si distingue la polemica che la maggior parte dei rappresentanti della presun­ta nuova etica ha scatenato contro i suoi avversari da quella di qualsiasi altro demagogo? Ci si dirà: per la nobile intenzione! Bene. Ma qui è dei mezzi che si sta parlando, e anche gli av­versari con cui si combatte pretendono per sé allo stesso iden­tico modo, in piena sincerità da un punto di vista soggettivo, la nobiltà delle proprie intenzioni ultime. «Chi di spada ferisce, di spada perisce», e la lotta è sempre lotta. E dunque, l’etica del sermone della montagna? Con il sermone del­la montagna – vale a dire con l’etica assoluta del Vangelo – si pone una questione assai più seria di quanto credono coloro che oggi citano volentieri questi precetti. Non va presa alla legge­ra. Per essa vale ciò che è stato detto della causalità nella scien­za: non è una carrozza che si possa far fermare a piacere per sa­lirvi o scenderne20. Al contrario: tutto oppure niente, è pro­prio questo il suo senso, se ne deve derivare qualcosa di diverso dalla banalità. Cosi, per esempio, la parabola del gio­vane ricco: «Egli se ne andò triste, poiché possedeva molte ric­chezze». Il precetto evangelico è incondizionato e univoco: dai via ciò che possiedi, semplicemente tutto. L’uomo po­litico dirà: una pretesa insensata dal punto di vista sociale, fin­tantoché non viene realizzata per tutti. E dunque: tassazioni, espropriazioni, confische, in una parola: coercizione e ordine per tutti. Ma il precetto etico non chiede affatto una cosa del genere, ed è questa la sua natura. Oppure: «Porgi l’al­tra guancia». Incondizionatamente, senza chiedere come mai spetti all’altro di colpire. Un’etica della mancanza di dignità, eccetto che per un santo. Questo è il punto: si deve essere san­ti in tutto, quanto meno nella volontà, si deve vivere come Gesù, come gli Apostoli, come San Francesco e i suoi pari, e solamente allora quest’etica è dotata di senso ed è espressio­ne di una dignità. Altrimenti no. Infatti, quando in conseguenza di un’etica acosmica dell’amore si dice: «Non opporti al male con la violenza», per l’uomo politico vale il prin­cipio opposto: devi resistere al male con la violenza, altri­menti sarai responsabile della sua affermazione. Chi intenda agi­re secondo l’etica del Vangelo, si astenga dagli scioperi – poiché essi rappresentano una forma di coercizione – e si iscriva ai sin­dacati gialli. E soprattutto non parli di «rivoluzione». Infatti quell’etica non intende certo insegnare che proprio la guerra ci­vile sia l’unica forma di guerra legittima. Il pacifista che agisca secondo i precetti del Vangelo rifiuterà o getterà via le armi, co­me veniva raccomandato in Germania, in quanto ciò rappresenta un dovere morale, allo scopo di porre fine alla guerra e dunque a ogni guerra. L’uomo politico dirà: l’unico mezzo sicuro per screditare la guerra per un periodo in qualche modo preve­dibile sarebbe stata una pace di status quo. I popoli si sa­rebbero chiesti allora: a che scopo la guerra? Essa sarebbe sta­ta ridotta ad absurdum, ciò che oggi non è più possibile. Infat­ti per i vincitori – o quanto meno per una parte di essi – essa è stata politicamente vantaggiosa. E di ciò è responsabile quella condotta che ci ha reso impossibile ogni resistenza. Quando dunque l’epoca della stanchezza sarà trascorsa, non la guerra, ma la pace sarà screditata: una conseguenza dell’etica assoluta.

Infine: il dovere della verità. E un dovere incondizionato per l’etica assoluta. Se ne è dunque dedotta la conseguenza di pubblicare tutti i documenti, soprattutto quelli che accusano il proprio paese, e sul fondamento di questa pubblicazione unila­terale di riconoscere la propria colpa unilateralmente, senza condizioni, senza riguardo alle conseguenze. L’uomo politico troverà che in tal modo non si è promossa la verità, ma la si è sicuramente oscurata attraverso l’abuso e lo scatenamento del­le passioni; che soltanto una verifica generale, condotta secon­do un piano e attraverso giudici imparziali potrebbe dare buo­ni frutti, e che ogni altro modo di procedere può avere, per la nazione che cosi agisce, conseguenze che si dovranno ancora ri­parare tra decenni. Ma è proprio sulle «conseguenze» che l’e­tica assoluta non si interroga.

Sta qui il punto decisivo. Dobbiamo renderci chiaramen­te conto che ogni agire orientato in senso etico può essere ri­condotto a due massime fondamentalmente diverse l’una dal­l’altra e inconciliabilmente opposte: può cioè orientarsi nel senso di un’«etica dei principi» oppure di un’«etica della responsa­bilità». Ciò non significa che l’etica dei principi coincida con la mancanza di responsabilità e l’etica della responsabilità con una mancanza di principi. Non si tratta ovviamente di questo.

Vi è altresì un contrasto radicale tra l’agire secondo la massima del­l’etica dei principi, la quale, formulata in termini religiosi, re­cita: «Il cristiano agisce da giusto e rimette l’esito del suo agi­re nelle mani di Dio», oppure secondo la massima dell’eti­ca della responsabilità, secondo la quale si deve rispondere delle conseguenze (prevedibili) del proprio agire. A un sinda­calista convinto che agisca in base all’etica dei principi voi po­trete mostrare in modo assai persuasivo che in conseguenza del suo agire aumenteranno le possibilità della reazione, crescerà l’oppressione della sua classe, verrà rallentata la sua ascesa: ciò non farà su di lui alcuna impressione. Se le conseguenze di un’a­zione derivante da un puro principio sono cattive, a suo giudi­zio ne è responsabile non colui che agisce, bensì il mondo, la stupidità di altri uomini, o la volontà del dio che li ha creati ta­li.

Colui che invece agisce secondo l’etica della responsabilità tiene conto, per l’appunto, di quei difetti propri della media de­gli uomini. Egli non ha infatti alcun diritto – come ha giusta­mente detto Fichte” – di dare per scontata la loro bontà e per­fezione, non si sente capace di attribuire ad altri le conseguen­ze del suo proprio agire, per lo meno fin là dove poteva prevederle. Egli dirà: queste conseguenze saranno attribuite al mio operato. Colui che agisce secondo l’etica dei principi si sente «responsabile» soltanto del fatto che la fiamma del puro prin­cipio – per esempio la fiamma della protesta conto l’ingiustizia dell’ordinamento sociale – non si spenga. Ravvivarla continua­mente è lo scopo delle sue azioni completamente irrazionali dal punto di vista del possibile risultato, le quali possono e devono avere soltanto un valore esemplare.

Ma nemmeno cosi il problema è ancora esaurito. Nessuna etica al mondo prescinde dal fatto che il raggiungimento di fi­ni «buoni» è legato in numerosi casi all’impiego di mezzi eti­camente dubbi o quanto meno pericolosi e alla possibilità, o an­che alla probabilità, che insorgano altre conseguenze cattive. E nessuna etica al mondo può mostrare quando e in che misura lo scopo eticamente buono «giustifichi» i mezzi eticamente peri­colosi e le sue possibili conseguenze collaterali.

Per la politica il mezzo decisivo è la violenza, e quanto sia grande la portata della tensione tra il mezzo e il fine da un pun­to di vista etico lo potete desumere dal fatto, noto a tutti, che i socialisti rivoluzionari (corrente di Zimmerwald) già duran­te la guerra professavano un principio che si potrebbe cosi for­mulare: « Se ci trovassimo a dover scegliere tra un anno di guer­ra ancora e poi la rivoluzione, oppure la pace subito ma senza rivoluzione, noi sceglieremmo ancora qualche anno di guerra! » All’ulteriore domanda: «Che cosa può portare questa rivolu­zione?», qualsiasi socialista dotato di una qualche preparazio­ne scientifica avrebbe risposto che non si poteva parlare di un passaggio a un’economia che si potesse definire socialista nel senso da lui inteso, ma che sarebbe sorta una nuova eco­nomia borghese, la quale avrebbe potuto soltanto far piazza pu­lita degli elementi feudali e dei residui dinastici. Dunque, per questo modesto risultato: «Ancora qualche anno di guerra! » Si potrà certo affermare che in questo caso, anche con una assai salda convinzione socialista, si potrebbe respingere il fine che richiede un tale mezzo. E tuttavia nel bolscevismo e nello spartachismo, e in generale in ogni forma di socialismo rivoluzio­nario, le cose stanno esattamente allo stesso modo, ed è natu­ralmente assai ridicolo quando da questa parte vengono moral­mente rimproverati i «politici della forza» del vecchio regime a causa dell’impiego dell’identico mezzo, per quanto possa es­sere del tutto giustificato il rifiuto dei loro fini.

Qui, in relazione a questo problema della giustificazione dei mezzi attraverso il fine, anche l’etica dei principi sembra in ge­nerale destinata al fallimento. Essa, infatti, ha logicamente sol­tanto la possibilità di respingere ogni agire che faccia uso di mezzi eticamente pericolosi. Logicamente. Nel mondo reale, tuttavia, noi sperimentiamo continuamente che colui il quale agisce in base all’etica dei principi si trasforma improvvisamente nel profeta millenaristico, e che per esempio coloro che hanno appena predicato di opporre «l’amore alla violenza», nell’istante successivo invitano alla violenza – alla violenza ultima , la quale dovrebbe portare all’annientamento di ogni violenza – cosi come i nostri militari dicevano ai soldati a ogni offensiva: questa sarà l’ultima, porterà la vittoria e poi la pace.

Colui che agisce in base all’etica dei principi non tollera l’irrazionalità eti­ca del mondo. Egli è un «razionalista» cosmico-etico. Chi di voi conosce Dostoevskij ricorderà senz’altro l’episodio del Grande Inquisitore, dove il problema è trattato con grande precisione.

Non è possibile mettere d’accordo l’etica dei principi e l’etica della responsabilità oppure decretare eticamente quale fine deb­ba giustificare quel determinato mezzo, quando si sia fatta in generale una qualche concessione a questo principio.

[ …]

Chi vuole fare politica in generale, e soprattutto chi vuole esercitare la politica come professione, deve essere consapevo­le di quei paradossi etici e della propria responsabilità per ciò che a lui stesso può accadere sotto la loro pressione. Lo ripeto ancora: egli entra in relazione con le potenze diaboliche che stanno in agguato dietro a ogni violenza. I grandi virtuosi del­l’amore acosmico per l’uomo e del bene – provengano essi da Nazareth, da Assisi o dai palazzi reali indiani – non hanno ope­rato con il mezzo politico della violenza, il loro regno «non era di questo mondo», e tuttavia agirono e agiscono in questo mondo, e le figure di Platon Karataev e dei santi dostoevskiani sono pur sempre quelle che si adattano meglio a tali modelli. Chi aspira alla salvezza della propria anima e alla salvezza di al­tre anime non le ricerca sul terreno della politica, che si pone un compito del tutto diverso e tale da poter essere risolto sol­tanto con la violenza. Il genio o il demone della politica e il dio dell’amore, anche il dio cristiano nella sua forma ecclesiastica, vivono in un intimo contrasto, che in ogni momento può tra­sformarsi in un conflitto insanabile.

[ …]

In verità: la politica viene fatta con la testa, ma di certo non con la testa soltanto. In ciò coloro che agiscono in base al­l’etica dei principi hanno pienamente ragione. Ma se si debba agire in base all’etica dei principi o all’etica della respon­sabilità, e quando in base all’una o all’altra, nessuno è in grado di prescriverlo. Si può dire soltanto una cosa: se adesso, in que­sti tempi (come voi pensate) di n o n «sterile» agitazione – ma l’agitazione non è sempre del tutto genuina passione – se ades­so improvvisamente i politici che agiscono in base al­l’etica dei principi si presentassero in massa con la parola d’or­dine: «Non io, ma il mondo è stupido e mediocre, la responsa­bilità per le conseguenze non riguarda la mia persona, ma gli altri, al cui servizio io lavoro, e la cui stupidità o volgarità io sradicherò», io dico allora apertamente che in primo luogo vor­rei interrogarmi sulla sostanza interiore che sta die­tro questa etica dei principi. Ho la sensazione che in nove casi su dieci mi troverei di fronte a degli spacconi che non sentono realmente ciò che assumono su di sé, ma si inebriano di sensa­zioni romantiche. Ciò non mi interessa molto dal punto di vi­sta umano e mi lascia del tutto indifferente. Suscita invece un’e­norme impressione sentir dire da un uomo maturo – non importa se vecchio o giovane anagraficamente – il quale sente realmente e con tutta la sua anima questa responsabilità per le conseguenze e agisce in base all’etica della responsabilità: «Non posso fare altrimenti, di qui non mi muovo». Questo è un at­teggiamento umanamente sincero e che commuove. E infatti una tale situazione deve certamente potersi verificare una volta o l’altra per chiunque di noi non sia privo di una pro­pria vita interiore. Pertanto l’etica dei principi e l’etica della re­sponsabilità non costituiscono due poli assolutamente opposti, ma due elementi che si completano a vicenda e che soltanto in­sieme creano l’uomo autentico, quello che può avere la «vo­cazione per la politica».

[ …]

La politica consiste in un lento e tenace superamento di du­re difficoltà da compiersi con passione e discernimento al tem­po stesso. E certo del tutto esatto, e confermato da ogni espe­rienza storica, che non si realizzerebbe ciò che è possibile se nel mondo non si aspirasse sempre all’impossibile. Ma colui che può farlo deve essere un capo e non solo questo, ma anche – in un senso assai poco enfatico della parola – un eroe. Pure coloro che non sono né l’uno né l’altro devono altresì armarsi di quella fer­mezza interiore che permette di resistere al naufragio di tutte le speranze, già adesso, altrimenti non saranno in grado di rea­lizzare anche solo ciò che oggi è possibile. Soltanto chi è sicu­ro di non cedere anche se il mondo, considerato dal suo punto di vista, è troppo stupido o volgare per ciò che egli vuole of­frirgli, soltanto chi è sicuro di poter dire di fronte a tutto que­sto: «Non importa, andiamo avanti», soltanto quest’uomo ha la «vocazione» per la politica.

Da: Max Weber, La scienza come professione. La politica come professione, Edizioni di Comunità, 2001, pagg. 97-113


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